Sapevate che, in passato, l’Altopiano della Paganella è stato un importante distretto industriale? Sembra incredibile, ma è proprio così: quando i nostri paesi non erano che piccolissimi villaggi dispersi tra le montagne, Andalo e Spormaggiore si trovarono al centro di un’impresa industriale di rilievo internazionale. Stiamo parlando della “fabbrica del vetro”.
Nel 1790 un imprenditore trentino, Domenico Antonio Vidi, costruì ad Andalo al “Doss de le Mòseghe”, poco a monte del Maso Toscana, uno stabilimento di vetri e cristalli all’uso di Boemia. Il nostro imprenditore aveva ottenuto dal Comune di Zambana il permesso di tagliare legna nei boschi della Paganella per alimentare il fuoco delle fornaci e delle calcare; in zona vi era inoltre un ruscello che portava l’acqua necessaria per azionare il mulino di triturazione del materiale siliceo e la ràssica per il taglio delle assi.
Assoldò dalla Boemia esperti maestri vetrai e fece arrivare i materiali necessari dal Trentino, dall’Italia e dall’Europa.
La produzione iniziò nel 1791: il cristallo di Andalo risultò di grandissima qualità, per nulla inferiore a quello boemo, e trovò immediata commercializzazione a Trento e nei confinanti territori italiani. L’abile imprenditore riuscì a passare indenne il burrascoso periodo geopolitico, fatto di guerre, confini territoriali continuamente spostati e battaglie sui dazi commerciali.
Le cose invece non andavano affatto bene sul fronte interno. La voracità dei forni fusori e delle caldaie aveva impoverito le risorse forestali della Paganella. La comunità passò dalla preoccupazione al malcontento, e infine alla rivolta.
Vidi fu costretto nel 1819 a trasferire la produzione nel nuovo e più moderno stabilimento di Spormaggiore, nella località che appunto prese il nome dalla sua impresa: la “Fabrica”. Ma lo attendeva anche qui l’ostilità verso un’attività che, con i forni fusori da 25 bocche, avrebbe portato al disboscamento dell’intera Selvapiana.
Nonostante i successi commerciali e l’apprezzamento della Corte viennese, il boicottaggio dei lavoratori di Spormaggiore contribuì alla caduta della produzione e portò alla chiusura dello stabilimento nel 1828.
Pur trattandosi di un caso industriale ad altissima tecnologia e di grande successo commerciale, gli abitanti dell’Altopiano avevano vissuto, di tutto questo, solo gli aspetti più negativi come la distruzione del patrimonio boschivo fonte della sopravvivenza stessa della comunità, ma anche numerosi casi di malattie professionali ai polmoni e agli occhi dei i lavoratori.
L’equilibrio secolare tra uomo e territorio era stato violato, con gravi danni per la comunità e rischi ancor maggiori per il futuro. Così, come un bubbone infetto, la fabbrica fu espulsa dal territorio dell’Altopiano.